Un museo della città a Urbino definita la città ideale; ma quale città se non quella ideale si desidera? Ideale non perché perfetta, ma perché desiderata.
Il filo conduttore è stato affidato all’idealità presente, quotidiana, non relegata a un passato. Italo Calvino nel romanzo Le città invisibili colloca Fedora fra le città e il desiderio.
Fedora porta nel nome la traccia di chi l’ha voluta: lontana dall’etimologia corretta, significa dono di Federico, che amava siglare le stanze del suo palazzo con FE COMES o FE DUX. La targa, nel percorso della grafica del museo, ha voluto rappresentare l’espansione del museo oltre i confini del palazzo che lo contiene. Il vero contenitore delle memorie è la città e il museo svolge la funzione dell’introduzione. Abbiamo guardato Urbino come una città dilatata sulle mappe delle città invisibili, attraverso le profondità materne di Paolo Volponi, scrittore urbinate, nel mistero del suo eterno rigenerarsi, con gli occhi di Cardarelli, del viaggiatore che si interroga, con lo sguardo dei suoi artisti Sanchini, Ceci e Bruscaglia, con la passione di chi l’ha progettata, Francesco di Giorgio Martini e Giancarlo De Carlo, di chi vi ha lasciato i suoi doni o i suoi pensieri, Mastroianni, Pomodoro, Mattiacci. Abbiamo voluto restituire i suoni, le voci e i silenzi, le luci e le ombre, i passi che si avvicinano, quelli che si allontanano, i segni forti dell’appartenere ad un luogo nell’intreccio fra passato e presente, nell’attesa di incontrare la città, di sorprenderci nel suo dialogo, dove è necessario solo lo sguardo per riconoscere e ritrovarsi, per partecipare più in là della semplice qualità di spettatore. Si è affidato l’intreccio alle stanze degli scambi, dei segni, degli sguardi, della memoria; e ancora si racconta la grande tradizione artistica dell’incisione introducendo lo spettatore al passaggio dalla traccia al segno. E ancora l’Urbino della scuola, degli studi, la città della cooperazione e dell’assistenza, la città del novecento, quella del settecento, quella del 400; l’Urbino romana che andiamo a cercare tra gli scavi, e quella che essendo tutti giorni sotto i nostri occhi, per consuetudine non guardiamo più.
0. La città e gli scambi
Se ad Urbino pensi di trovarti sulla terra ferma, guardando la forma della città, ti devi subito ricredere: ti trovi, in realtà, su una nave, con la prua puntata verso l’Adriatico. “Perché un viaggio ad Urbino?” Alla domanda Cardarelli risponde: “Perché è un viaggio alle origini.” È vero, come scrive Baldassarre Castiglione e Italo Calvino, che Urbino è una città racchiusa in un palazzo? Paolo Volponi è di parere contrario: la città sprofonda nei pozzi, nei cortili, nei suoi giardini segreti, ma si allarga, poi, in un paesaggio così bello dove si può perdere il senso dell’esserci. Questo spazio ti accoglie con la parola discreta degli scrittori, con i quali puoi dialogare in silenzio, o, superato un fragile confine, con le immagini di inusitati percorsi dentro la città per scoprire il senso comune dell’identità.
1. La città e i segni
Il grande platano, che la tradizione vuole piantato nel 1700, primo anno del papato di Clemente XI Albani, prolunga le sue ramificazioni nella stanza per trasformarsi nell’albero genealogico della città, la cui storia si intreccia con le storie del mondo. Il ritmo del tempo è scandito dai congegni dell’orologio da torre. È la stanza dei segni lasciati dal tempo, ma anche di chi per un momento, vedendo la sua immagine riflessa negli specchi, trova il suo ritratto accanto a quelli dei due pittori urbinati più famosi: Raffaello Sanzio e Federico Barocci. Su quegli specchi si può lasciare il segno del proprio passaggio.
2. la città e gli sguardi
L’invisibile Fedora è ancora Urbino, la città dono di Federico. Una voce narrante avverte il visitatore di essere entrato a far parte di una storia, forse di una favola. I progetti di artisti e architetti doppiamente si specchiano nelle città ideali chiuse nella perfezione delle sfere in alto e dentro le superfici curve riflettenti in basso. Nella stanza dei desideri i progetti sono testimoni delle potenzialità di crescita della città, alimentata nel tempo dal sogno umanistico del Duca. Sulla sfera armillare, ingigantita ad occupare un ampio spazio della stanza, si svolge un sequenza di scatti del fotografo Andrea Angelucci a definire i dettagli di luce lungo l’arco di una giornata trascorsa ad Urbino. All’interno si stende il panorama a 360 gradi dal punto più alto della città accompagnato da i versi più famosi di Leopardi dell’Infinito E in questa immensità s’annega il pensier mio e quelli di Volponi Il paesaggio è troppo e ho paura di caderci dentro.
3. la città e i segni incisi
La vita è scandita da segni: casuali o intenzionali, naturali o artificiali, temporanei o permanenti, riscontrabili in noi stessi o nel mondo esterno. Ecco allora che sullo schermo collocato al centro della stanza scorrono immagini che fanno riferimento a questo universo segnico. L’incisione nasce dalla necessità di conservare queste tracce, affinchè potessero durare più a lungo. La complessa tecnica incisoria trae origine da un procedimento messo a punto in Europa alla metà del ‘400 consistente nell’impiego combinato di antiche pratiche orafe, come il bulino, del nuovo materiale entrato in uso, la carta, e di uno strumento meccanico appositamente ideato, il torchio. Discostando le tende che celano dei box appaiono incisioni che si riferiscono alle diverse tecniche della xilografia, della calcografia e della litografia di maestri della Scuola del Libro: Pietro Sanchini, Renato Bruscaglia e Carlo Ceci. Sulla parete si aprono delle finestre sui materiali necessari ad un laboratorio di un incisore: matrici di legno e di metallo, bulini, raschiatoi, punte, inchiostri, vernici, la tarlatana.
4. corte
I versi Sappiate che ho paura di volare, di essere chiuso tra questa gente adulta. Ho paura del vento che non sceglie, tratti dal poemetto La paura di Paolo Volponi hanno preso a prestito i caratteri in capitale romano dall’iscrizione, collocata nel cortile d’onore del palazzo ducale, che celebra gli ideali umanistici di un protagonista del Rinascimento come Federico da Montefeltro. I versi di Volponi trasmettono, nei contenuti, il male di vivere dell’uomo contemporaneo contrapposti alle certezza rinascimentali di Federico che è stato dichiarato vincitore di ogni battaglia, materiale e spirituale: Omniumque praeliorum victor. Comode altalene consentono nella corte da un lato di percepire le folate immancabili del vento di Urbino e dall’altro, lungo le pareti, di entrare dentro le mappe per percorrere la città storica dal Rinascimento ad oggi, la città dei nomi, della misericordia e degli studi.
5. la città e la memoria
La sala ospita un significativo nucleo di sculture lignee donate dall’artista Umberto Mastroianni alla Città di Urbino. Sono bozzetti per sculture realizzate in bronzo o in acciaio, tuttavia da considerarsi quali opere compiute. Si tratta di opere in cui le masse, disposte attorno ad un asse centrale, seguono talvolta leggere eppur significative trasgressioni delle simmetrie, con contrasti fra profili, piegature e incavi disuguali, fra accumuli di volume e vuoti. Tali alternanze contribuiscono a restituire un senso di dinamicità che accresce il tono espressivo delle sculture di cui percepiamo la vitalistica pulsazione. Il vulcanico sentimento della vita di Mastroianni, messo a confronto con le atrocità della guerra, si traduce infatti in opere in cui la forma non solo è ferita, ma è sul punto di disgregarsi violentemente. Le devastazioni della guerra hanno infatti certamente portato l’artista ad esasperare le forme: ecco allora che le sculture sono messe in scena, a destra, idealmente rovesciate, come carni da macello, richiamando l’atroce immagine di partigiani impiccati a ganci da macellaio, come evoca Massimo Mila. Le opere risentono delle influenze del movimento che il futurismo ha impresso nella scultura. La modernità delle avanguardie in Mastroianni tuttavia si coniuga con una meditazione profonda della scultura antica, qui rappresentata dalla riproduzione del Laocoonte dei Musei Vaticani.
6. la città nascosta
Un muro con delle piccole aperture ci invita a guardare attraverso, come un voyeur, scene di quotidianità che per abitudine non percepiamo più. Due canocchiali posti a diverse altezze fanno entrare nel museo il platano dal giardino soprastante.